Il nocino e il SPH

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di Graziano Gianinazzi

sph-Kontakte Nr. 103 | Februar 2017

Perché questo strano connubio nella nostra rivista? Che da qualche anno il centellinare del nocino rientri nelle consuetudini dell’assemblea SPH non è cosa estranea ad una parte dei nostri membri, tanto che qualcuno ha potuto asserire di favorirne il buon esito. Quello che di primo acchito sembrerebbero, nocino e la carta delle nostre attenzioni, due oggetti di natura tra loro estranea, può con l’immaginazione trovarne addirittura affinità.

Voglio però soddisfare prima di tutto il desiderio di chi sul nocino, questo liquore che proviene dal sud e che delle noci è l’essenziale ingrediente, vorrebbe saperne di più. Una precisazione va fatta: nocino è termine improprio, entrato però da tempo anche nel nostro linguaggio usuale. La sua denominazione originale antica è ratafiat (anche ratafià), e di questo liquore vi sarebbero le prime testimonianze in Piemonte già nel 1600. Il nome trarrebbe origine nell’espressione latina «pax rata fiat» (l’accordo di pace è fatto) in quanto con il liquore era uso suggellare un accordo. Sulla sua preparazione (invero molto complicata con esiti spesso deludenti) trovo descrizione nel Confetturiere piemontese, pubblicazione che appare a Torino nel 1790, della quale viene riprodotta la copertina. Che il liquore abbia anche quelle virtù afrodisiache indicate resta ancora da provare.

Quella ricetta che riporto di seguito, che ritengo meglio praticabile rispetto quella antica (ed è una fra le tante) mi è stata confidenzialmente ceduta dal cappuccino Ignazio del convento del Bigorio che ha prodotto per anni quel ratafià che era giudicato il migliore della regione. Anche questa ricetta, premetto, non è comunque semplice da realizzare.

La notte di San Giovanni (24 giugno) si raccolgono 39 noci che vanno tagliate in quattro e messe in un vaso con due litri di grappa da 24 gradi, alle quali vanno aggiunti 10 chiodi di garofano, un pezzetto di cannella, la scorza di mezzo limone. Il vaso va esposto per 40 giorni al sole agitandolo tutti i giorni. Il 3 agosto far bollire 400 gr di acqua con un kg di zucchero. Lasciar raffreddare e unire all’infuso alcolico prima colato attraverso una garza. Mescolare bene, imbottigliare e lasciare invecchiare. Il liquore migliora con il tempo.

I frati che per antica consuetudine raccoglievano nelle loro bisacce la grappa e le noci dai villaggi circostanti il convento (nel concetto francescano di farne poi quell’elemosina di tutti per poi farla a tutti), del ratafià da loro prodotto facevano uso proprio per mitigare i pungenti freddi invernali delle loro celle e per scopi medicinali. Nei breviari dei frati, tra le fibre delle pagine, si insinuava (affinità!) il profumo del ratafià che si combinava con quello odoroso del rapè, il tabacco da fiuto che si procuravano dai Fumagalli di Canobbio, del quale era pure abituale uso da parte dei frati. I vecchi libri di devozione dei frati testimoniavano qua e là del loro quotidiano uso devozionale anche per certe filigrane di bruno intenso del ratafià frammiste a quelle brune del rapè, colore anche del saio del loro ordine. Per chi saliva al convento Il fiasco del ratafià era sempre presente nella foresteria, permeata dal gradevole e tipico profumo di questi loro prodotti.